Luca Bussotti
Il Good Governance Index del Chandler Institute of Governance è stato lanciato, per la prima volta, nel 2021. L’istituto ha sede a Singapore, un paese che non brilla per la qualità della sua democrazia, tanto da essere stato definito, fra l’altro, come “costituzionalismo autoritario” (Tushnet, 2015). Questa premessa è necessaria poiché l’indice dello Chandler Institute non può essere paragonato ad altri ranking internazionali, quali quelli di Freedom House, Human Rights Watch o The Economist, il cui pressupposto si basa, appunto, sulla qualità della democrazia e il rispetto per i diritti umani da parte dei vari paesi analizzati.
Nel caso in questione, questo indice, che nel 2025 ha valutato 120 paesi, si autodefinisce “imparziale”, nel senso che non si prefigge, fra i suoi obiettivi, quello di misurare il livello di democrazia, quanto l’efficacia dell’azione governativa a livello nazionale. Come scrivono i due curatori dell’edizione 2025 del Report, Alvin Pang e Mazlan Ahmad (link: https://chandlergovernmentindex.com/wp-content/uploads/2025/05/2025-Chandler- Good-Government-Index-Report.pdf), ciò che più interessa misurare è la capacità di adattamento dei vari paesi alla turbolenza internazionale in corso, insieme alla performance di ciascuno stato rispetto ai sette ambiti in cui l’indice è stato suddiviso.
Gli ambiti, o “pilastri” (pillars, in inglese) utilizzati sono i seguenti: Leadership e prospettive; Leggi e politiche robuste; Istituzioni forti; Gestione finanziaria; Mercato attrattivo; Influenza globale e reputazione; Capacità di aiutare la crescita delle persone. Ognuno di questi pilastri generali viene, a sua volta, operazionalizzato in vari altri indicatori concreti, in modo da poter misurare, con la maggiore obiettività possibile, la reale performance dei vari paesi oggetto dell’analisi.
Le sorprese sono molto poche rispetto ad altri ranking internazionali. A parte il fatto che Singapore è il primo paese in assoluto di questo indicatore (fatto che fa perdere parzialmente credibilità in partenza a questo ranking), ai primi posti si trovano i paesi nordici europei (in ordine Danimarca, Norvegia, Finlandia, Svezia), seguiti da quelli dell’Europa Centrale con, al nono posto, gli Emirati Arabi Uniti. Gli stati col maggiore índice di declino, rispetto allo scorso anno, sono Sri Lanka, Panama e Honduras, mentre quelli migliorati di più sono Italia (+ 6 posizioni, ma ancora fuori dalla top-20), ma soprattutto Vietnam e Mongolia (+12) ed Emirati Arabi Uniti (+19).
Le note più dolenti vengono dal continente africano, la cui performance lo posizionano all’ultimo gradino rispetto a tutte le altre regioni del pianeta, nonostante un modestissimo miglioramento rispetto al 2024. Se, per l’Africa sub-sahariana, il fattore demografico rappresenta un elemento imprescindibile, sia come potenzialità che come problema (70% della popolazione si trova fra gli under-30), più chiari sono altri elementi. L’unico pilastro che ha fatto registrare un qualche miglioramento è quello relativo alle Istituzioni forti; tutti gli altri, in particolare la Gestione finanziaria, l’Influenza globale e la reputazione e la Capacità di aiutare la crescita delle persone segnalano peggioramenti significativi.
L’indicatore che maggiormente è peggiorato riguarda la stabilità economica, un fattore di enorme preoccupazione, che sta ipotecando il futuro di quasi tutto il continente.
Un elemento da sottolineare (dati 2023) è che il 60% del debito pubblico africano è esterno, per un valore di 1,16 miliardi di dollari. E ciò che preocupa ancora di più è che questo debito è concentrato in pochi paesi, quali Africa del Sud (14%), Egitto (13%) e Nigeria (8%), seguiti da Marocco e Mozambico (6%) e Angola (5%), e che esso è raddoppiato in 10 anni.
Fra i paesi africani meglio valutati dal report del Chandler Institute si trovano le Isole Mauritius, seguite dal Rwanda di Kagame, dal Botswana, dal Marocco e dall’Africa del Sud. I due paesi maggiormente migliorati, rispetto al 2024, sono stati Tanzania e Rwanda.
Come è avvenuto per il ranking generale, anche nel caso africano i paesi più efficienti, in termini di governance, sono anche quelli più democratici, fatta eccezione per il Rwanda e, in parte il Marocco, la più importante monarchia africana. I due stati, nel 2024, erano classificati rispettivamente come “Not free” (score totale: 36/100, con 8/40 rispetto ai diritti politici) e “Partly free” (score totale: 37/100, con 13/40 rispetto ai diritti politici) da Freedom House, mentre gli altri della top-5 africana sono considerati come stabilmente democratici. Se, quindi, è lecito concludere che laddove c’è più democrazia di solito i governi sono anche più efficienti, eccezioni sono comunque riscontrabili. Sia Rwanda che
Marocco, infatti, hanno fama di essere paesi con un significativo deficit di democrazia, ma piuttosto efficienti, quanto all’erogazione dei servizi pubblici essenziali e all’azione di governo. Il Marocco, poi, negli ultimi anni, ha anche incrementato il suo prestigio internazionale, ponendosi come uno dei pochi, forse l’unico paese dell’Africa settenrionale a garantire una certa stabilità. Per il Rwanda il discorso sarebbe molto più complesso, visto che la sua reputazione internazionale è crollata, negli ultimi anni, a causa del conflitto nel Congo dell’Est, dove – secondo vari report delle Nazioni Unite (link: https://news.un.org/en/story/2025/02/1160406) – le truppe tutsi del gruppo M 23, finanziate da Kagame sono impegnate nel sabotaggio del paese vicino, con azioni esplicite di terrorismo e pulizia etnica. Tuttavia, il report del Chandler Institute mette in evidenza l’efficacia dell’azione di governo a livello interno, sia per quel che riguarda, per esempio, la pulizia delle strade e gli sforzi per la digitalizzazione della pubblica amministrazione che il coinvolgimento delle comunità locali nella gestione di servizi di base, un sistema noto come Umuganda.
Infine, un’ultima parola rispetto al miglioramento della Tanzania, uno dei pochi paesi guidati da una presidente-donna (Samia Suluhu Hassan). Certo, non si tratta di una variabile che può confermare il fatto che una Governance al femminile sia migliore rispetto a una al maschile, vista l’esiguità dei casi, e tuttavia non vi sono dubbi che Hassan sia impegnata in un ampio processo di democratizzazione, riforme e accesso all’educazione per bambine e adolescenti, differentemente da ciò che accadeva coi suoi predecessori.
Agli ultimi posti del ranking del Chandler Institute si trovano due fra i giganti africani, ossia i principali paesi della lusofonia continentale, Angola e Mozambico. Nel caso del Mozambico, il paese si trova al 112 posto, perdendo 4 posizioni rispetto al 2024. Ciò che, in parte, lo salva dal disastro è l’Influenza globale e la reputazione che, forse anche grazie alla sua consolidata diplomazia, lo colloca all’87 posto del ranking dei 120 paesi valutati.
Ciò, però, è forse ancora più grave, poiché gli indicatori interni, con maggiore impatto sulla qualità della vita dei cittadini mozambicani, sono tutti estremamente negativi, con una gestione finanziaria al 113 posto complessivo del ranking, e una sostanziale incapacità di intervenire per migliorare la condizione di vita dei propri cittadini (107 posto).
Per l’Angola il discorso non è molto diverso: anzi, il paese performa anche peggio del Mozambico, classificandosi al 118 posto del ranking, ma con un dato nettamente migliore rispetto alla stabilità finanziaria (83 posto) in confronto al Mozambico. Anche qui, il dato sulla capacità di migliorare la vita dei propri cittadini è drammatico (118 posto), così come l’attrattività del mercato (117 posto), ancora legato alla monocoltura di petrolio e di diamanti, quindi a un modello puramente estrattivista, che non fa che incrementare la forbice fra ricchi e poveri, come dimostra – come anche per il Mozambico – un Coefficiente di Gini assai elevato e in continuo aumento.
Il ranking proposto dal Chandler Institute, a parte qualche scivolone segnalato sopra, offre un quadro interessante rispetto all’effettiva capacità di Governance “pratica”, si potrebbe dire, dei governi rispetto ai loro cittadini. Nonostante la professione di “imparzialità” (ossia non schierarsi né in favore, né contro modelli democratici), risulta piuttosto evidente come il deficit di democrazia abbia una correlazione negativa rispetto alla performance globale, anche se le eccezioni, a ogni latitudine, non mancano, come si è visto sia a livello generale, che per il caso africano in modo più specifico. L’Africa ne esce, tutto sommato, a pezzi: a parte pochi casi, il quadro è drammatico, i miglioramenti quasi insignificanti, mentre paesi-chiave, quali Angola e Mozambico, non riescono neanche più a garantire quei servizi minimi ai propri cittadini che, al contrario, col processo di formale democratizzazione avviatosi negli anni Novanta, avrebbero dovuto apportare miglioramenti significativi.