Luca Bussotti
Sono 69 i morti provocati da un attacco nel Sud-Ovest del Niger il 4 novembre scorso, in una zona che sta diventando terra di nessuno, quella al confine fra lo stesso Niger, il Burkina Faso e il Mali, per l’esattezza nel villaggio di Adab-Dab. L’attacco è stato portato da un gruppo di uomini armati, appartenenti probabilmente – l’attacco ancora non è stato rivendicato – allo Stato Islamico del Grande Sahara (ISGS) e giunti in Niger dal Mali con mezzi motorizzati. L’obiettivo era assaltare i Vigilance Committees, una forza armata locale di autodifesa, che ha l’obiettivo di proteggere questa parte sud-occidentale del Niger. Nell’attacco sarebbero caduti, oltre a decine di civili, anche un sindaco del comune di Banibangou, nella zona di Tillaberi, e il capo dei locali Vigilance Committees. Dopo il sanguinoso attacco il gruppo degli assaltanti ha ripreso la strada di ritorno verso il Mali, portandosi via i corpi senza vita dei propri compagni caduti nell’attacco.
Il ministro dell’interno del Niger, Alkache Alhada, ha dichiarato immediatamente due giorni di lutto nazionale. Una decisione, purtroppo, ricorrente negli ultimi mesi, visto che il paese si trova sotto attacchi costanti da parte di gruppi appartenenti allo Stato Islamico. La stessa decisione era stata presa a gennaio, con un centinaio di caduti, ancora al confine col Mali, quando i villaggi presi di mira erano stati Tchombangou e Zaroumdareye, mentre a fine 2020 Boko Haram aveva rivendicato attentati nel sud-est del paese, con un bilancio di 28 morti. Stesso scenario si era verificato a marzo, quando a perdere la vita furono 137 persone, mentre ad agosto altri due giorni di lutto nazionale erano stati dichiarati, dopo l’uccisione di altri 37 individui, nella stessa regione dell’attacco dei giorni scorsi.
Soltanto nella regione sud-occidentale del Niger, i caduti nel 2021 sono, fino a oggi, circa530, cinque volte in più rispetto a quanto avvenuto nel 2020, a testimonianza di una situazione che sta ormai sfuggendo di mano, lasciando campo libero agli eserciti ribelli, affiliati allo Stato Islamico.
Una tale evoluzione è dovuta, in larga misura, a due fattori fondamentali: da un lato, Macron, come annunciato più volte pubblicamente, ha deciso di ridurre drasticamente gli effettivi militari francesi, tanto che l’Operazione Barkhane sarebbe ormai destinata alla chiusura. Le truppe di Parigi nel Sahel hanno visto una contrazione significativa, passando da 5.100 a non più di 3.000 effettivi negli ultimi mesi. Dall’altro il Ciad ha anch’esso ritirato buona parte dei propri militari dal triangolo di confine fra Niger, Burkina Faso e Mali (passando da 1200 a 600), al fine di garantirsi una maggiore sicurezza interna, soprattutto dopo la morte del proprio presidente, Idriss Déby, nello scorso aprile, e l’instaurazione di un governo di transizione.
La risposta a queste crescenti difficoltà sarebbe stsata identificata in un maggiore coordinamento all’interno del G5 del Sahel (Mali, Mauritania, Niger, Burkina Faso e Ciad). I cinque paesi, infatti, avrebbero deciso, in una riunione tenutasi a settembre presso la capitale nigerina, Niamey, maggiori livelli di collaborazione politico-militare, soprattutto nelle aree di confine, le più minacciate da attacchi jihadisti, a partire dal triangolo Mali-Burkina Faso-Niger. A questo proposito, l’Unione Europea ha garantito appoggio militare rafforzato, mediante la propria forza denominata Tabuka, che ha iniziato le operazioni lo scorso anno. A questa forza appartengono, oltre a numerosi effettivi francesi, soldati dell’Estonia, Repubblica Ceca, Svezia e Italia; il suo quartier generale è stato fissato a Niamey, col compito di sorvegliare il suddetto triangolo di confine, il più caldo dell’intero Sahel.
Nel frattempo gli attacchi si ripetono drammaticamente e le popolazioni sono prive dei servizi più elementari, in un paese, il Niger, in cui dieci milioni di persone (il 43% circa dell’intera popolazione) vivono in condizioni di povertà estrema, con mezzo milione di rifugiati provenienti da Nigeria e Mali e un 2020 molto difficile, a causa del COVID, che ha contratto ulteriormente la già non fiorente economia. Insomma, il ruolo del primo presidente eletto democraticamente lo scorso febbraio, Mohamed Bazoum, è estremamente difficile, trovandosi a dover fronteggiare sia continui attacchi di stampo Islamico che una condizione economica che fa del Niger uno dei paesi più poveri al mondo, dichiarato nel 2018 dall’Agenzia per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) la nazione col più basso indice di sviluppo umano nel pianeta.